Elisa

La avevo osservata — evidetur — le volte che ne avevo avuta occasione. Ma, allora, assai e bene. Di rado stavo, libero, alla finestra, per sperare di coglierne l'irregolare stasi. Mi aveva notato — pariter evidetur — non senza un pauco di pena; ma fatta la debita sommatoria era un vantaggio che le sbarre per le quali mi affacciavo a lei non lasciassero trasparire, intorno alla mia faccia smunta dalla cattività, le orecchie sventolanti che erano state la prinzipale causa del mio abbandono: padiglioni che odiavo, e che oltretutto fungeano d'appiglio al disperato dileggio de' miei compagni, impietosi nell'arrancarsi su il morale abbattendo il prossimo: nella fattispecie, me.

Non sia mai detto che mi avesse notato ammirata, ma per lo meno aveva menoma notizia della mia esistenza d'anima della XI bolgia; e magari, fors'anche nell'Es, cognitione delle sofferenze insite al mio stato. Lo doveva sapere, che per divina burla a poche iarde dalla sua quotidie iterata felicità precipitavano abissi di solitudine e desiderio di fuga; non poteva ignorarlo: era una nube nera che funestava l'intero giardino.

Noi un giardino non l'avevamo. Ed eravamo tutti troppo cresciutelli perché le poere suore potessero sperare di farci uscire per strada e poi anche rimenarci all'ovile. Onderagionpercui, sempre comunque, la nostra risibile pausa postprandiale era scaricata su corridoi i cui muri, tra capocciate d'insofferenza ed erosione d'incuria, dovevano essersi assai assottiliati negli aevi che avevano visto alternarsi colà i più tristi e soli adolescenti.

Mi richordo anchora con orrore i metodi per ottener posto alla finestra per pochi minuti; con orrore, non con rabbia. Non era un sopruso quel che subivo quasi ogni notte ad opera de'; miei compagni più grandi grossi nerboruti: era un normale scambio di favori, tal quale poscia ho esperto in tutti i diversi stad della mia vita adulta. I quasimaggiorenni detenevano de facto un privilegio che altrove apparteneva di diritto a tutti: un ammicco sul mondo. Fittavano la possibilità d'usufruirne; ma eran probi, idest rispettavano gl'impegni presi con manageriale infallibilità; inoltre davano ai boys più giovani, come me, l'opportunità di guadagnarsi il necessario.

Vo' deplicarvi 'l come: c'erano tra noi alcuni non completamente deserti e irrandagiati che avevano a tratti qualche baiocco 'n bisaccia, e, come tutti, repressissime voglie da esprimere: ita, in vece di provvedere da sé (x3) magari coll'auxilio di un'eccitante storia contata da un dei Patriarchi in un raro rito collettivo che rimembro ancora con trepidazione, pagavano il mio ajuto. Il servizio che io più detestavo, io che non ci provavo alcun gusto anzi semmai dis-, era, come puossi immaginare, succhiare. Finché si trattava di menarglielo potevo pur non badarci (a parte vèro ke ze n'éra uno davvero fròzo ke mi sbavàva dolzezze nelle recchie, vèh!), et anche le volte che lo presi nel didietro si trattò più che altro di dolore fisico. Ma l'assalto combinato del gusto e dell'olfatto che sanza mercede testimoniavano della scarsa igiene usa in qué lochi, alleati alla schifenza di un indesiderato salsizzùn tra i denti che mi lasciava con la perspectiva di venti minuti alla finestra e l'attaccaticcio moccicoso in gola, lo sopportavo solo in quantum martirio che subivo per Lei.

Era bionda Lei, e fabulosa. Grazie alle strida scambiate con le sue amiche, ne avevo conosciuto il nome: Elisa invocavo durante le mie corvées. Un martedì sera (non che la data abbia una qualunque importanza; tutta via essa è verità e noialtri veristi abbiamo a pedissequarla) mi si appropinquò un dei grandi.

—Hai voglia di stare alla finestra domani pomeriggio?—

Reprimendo entusiasmo chiesi, serio:

—Per quanto?—

—Mezzora.— Questo significava che dovevo prenderlo. Sospirai, poscia quesii a che ora. Dalle cinque alle cinquemmezza.

Era l'ora di più pregio
Avrei pagato il privilegio.

—È un esse ci, suppongo.— dissi. Esse-ci, cioè servizio completo, un'ora a cieca disposizione del nababbo committente.

—No, un esse esse.— Servizio speciale. Böshtemmiai sicut avevo imparato a fare per amusarmi co' più piccoli a scandalizzare le suore. Feci valere il mio peso contrattuale col lenone, che aveva bisogno di soldi per le sigarette.

—Mmmh. Chi è? Che vuole?— Lui mi indicò un panzone straboccante svanziche che idiotamente era fascinato del racket che aveva trovato in quello pseudoriformatorio in quanto, a causa della sua opulenza, era un minimo tenuto in consideratione et per tantum voleva farsi chiamare "Al Capone" invece che "Majale" com'era in uso.

—Cosa vuole non sono affari tuoi.— mi spiegò il magnaccia ricordandomi le precise anche se orali leggi vigenti.

—E se invece di un esse esse lui mi fa fare un esse esse ci?— posi oziosamente.

—Tu ci chiami.— e mi diede un affettivo scappellotto. Pensavo che al suo look sarebbero stati appropriati occhiali scuri e cravatta; e glielo dissi, perché gli volevo bene e avevo a cuore la sua public image. Lui, di rimpetto: "Ma va' via, Dumbo, che mi diventi frocio per davvero."

Un esse esse era una bestia rara. Io non l'avevo mai fatto, e una sola volta ne avevo avuto sentore: un tale voleva farsi leccare 'l buco del sedere. Per questo, quando si fu spanta la voce, tutti iniziarono ad incuriosirsi a me.

Un esse esse! Quasi quasi quasi c'era orgoglio professionale in me, quando confermavo a' miei coetanei la fondatezza d'esta leggenda. Notandum est come la quotidianità della disperazione la recedesse a rumore di fondo sul quale squillava la mia aoristica vanagloria. Mi preparai puntigliosamente nel bagno: oliai benebene il deretano, mi lavai le mani, mangiai una caramella di liquerizia estraforte per desensibilizzare le papille; alle dieci di fuoco ero pronto, ed era pronto anche il Majale.

Secondo i canoni ufiziali la cosa avrebbe dovuto svolgersi privatamente, ma trattandosi di un evento extraordinario avevamo dintorno una tribuna attenta e curiosissima. Ne era molestato il Majale, che si svergognava mortalmente a mostrare in pubblico preferenze amorique che si discostassero dall'aurea routine. Io ero l'assolto, l'istrumento, colui che sì faceva di sé mercatantia, ma non era coinvolto. Guardandosi attorno il Majale mi fece coricare prono, poi tirò fuori uno spago e me lo mise in bocca ammo'; di morso. Io, sia per motivi professionali che d'onòre, accettai con calma e sufficienza. Non lo vedevo, ma mi accorsi quando, salitomi a pallafreno in sulle cosce, estrapolò il pippo da' pantaloni del pigiama. Aspettandomela, la solita cosa che si a in quella posizione, rilasciai i muscoli e allargai le gambe quel tanto che mi concedevano le sue: ma lui, ohibò, poggiò il salame sul mio melaceo solco, e lì lo lasciò.

A me veniva un po' da ridere. Sforzossi, ed erculeamente riuscì ad eseguire un movimento tituboso, sgraziato come tutti i gesti controvoglia. Si tirò a pena su, e poi calò nuovamente, sempre a melanza poggiata sulla mia valle. Lo rifece, mentre dall'uditorio si affacciavano risolini. Indiposcia iniziò senz'altro a rantolare, e iterò per un pezzo con queste du' bizzarrie finacché la sua raucedine s'articolò.

—A...a...arri, arri...— e tutti si sganasciarono, io non per ultimo. Sentivo il suo cetriolino attrarsi invece di esuberare siccome sarebbe stato d'uopo: ma caparbio (aveva pagato) il Majale continuò, oramai sciolto, il su e giù e l'arri arri, tirando ogni tanto il morso e sbirciando la mia faccia rossa e lagrimante dal ridere senza ricordarsi della sua, rossa e lagrimante dalla vergogna. Saliscendi che ti saliscendo, al Majale scappò un peto. Un bel peto sonoro, di ciccia. Allora sì che abbandonò tutto nel trionfo del generale scherno: non osò neppure protestare col Patriarca che mi aveva raccomandato. Quella notte fui consacrato, e felice.

E potreste 'ntender voi ch'ascoltate in rime assenti 'l suono dé mié dolori quanto fui felice il pomeridìo seguente? Portai una sedia alla finestra e la vidi all'istante. Era verano, e lei era sempre in feria, sempre lì per me co' suoi hot pants. Vedendola trasumanavo e fluttuavo a proteggerla amante ombrello dal solleone. Era celeste: di lei non mi saziavo mai. Ecco, ora con due sue amiche, Giuditta e Martina ma chi sa quale era quale, faceva giri e giri sulla bicicletta, che io invidiavo anziché invidiarle. Poi s' ispostava a chiacchera con qualche signora. Poi a far ruzzare un bimbetto. Sempre disinvolta, libera e con una ciocca in bocca. Gli occhi forse azzurri, ma non si era mai avvicinata tanché io potessi vederli; in compenso menaditavo ogni sua movenza, il suo modo di esistere. Ne respiravo, ed aveva l'istesso perfumo d'ossigeno della foglia; le toccavo il bellìco: era morbido come la mozzarella che mangiavamo il giovedì. L'assaggiavo, ed era bembescamente insapore. Mi sentii tangere una spalla da un altro universo.

—È passato un quarto d'ora— m'avvertì uno sgherro.

Mi voltai de novo, ma non la vidi più. Ansioso attesi di vederla rispuntare da uno dei rari anfratti che la scarsa verzura della piazza mi precludeva: non arrivava. Tradimento efferato da punirsi nel Còcito! L'attesa divenne aeterna: l'aeternità durò un quarto d'ora. Vanamente implorai lo scherano che mi lasciasse un minuto: dietro di me aspettava il turno un biondastro brufoloso che non poteva avere alcun motivo non dico nobile ma per lo meno civile per affacciarsi. Elevai alti lai, ma non ci fu verso, e neppure emistichio.

—Oh, ha fatto una sega a uno!—

O tempora o mores! Per cinque stupidi minuti dovuti ad una masturbatione avevo da staccarmi dalla vita e ripiombarmi nella pece nera.

—Vieni via, Dumbo. Non fare la testa di cazzo.— mi fu minacciosamente ribadito. Io scappai in bagno, un po' per flere sulla scomparsa della mia elisia Angelica un po' per guadagnarmi un cinqueminuti su me stesso.

Ovatta mi circondava mentre travagliavo con costanza il mio santo Cresci-in-Man ad occhi chiusi, cisposo di lacrime: nel silenzio la udivo, ne animavvertivo l'ànsimo frenetico giojoso. Peccato solo che il cesso fetesse troppo per potermi imaginare l'odore della sua passerina che vedevo, stampata, sulle mie palpebre mentre lei mi si offriva, come chissà avrebbe fatto se io fossi stato abile a raggiungerla e farla Daphne. Le vibrazioni della sua voce le conoscevo; aveva gridato tanto ad una signora circostante "Vengo, mamma!". Sentii muoversi qualcosa. Mi stavo per ricomporre in fretteffuria (le suore non si peritavano di irrompere per salvaguardare la serenità di S. Luigi), ma il tump conc veniva leggiero dal muro opposto. Là era il fuori, un mondo libero e felice.

Poi, una voce; anzi, no... "la" voce, la sua, a un metro dalla mia squallida tazza!

—Vengo, mamma!—

Lei stava lì, proprio accanto a me! Al mio cesso! Al cesso mio! Mio e di altri cinquanta maledetti stronzi, ma anche mio! Io lì, Lei là. A 1 m di distanza. Ma che metro: un intonaco, pietre e calce, un altro intonaco, e poi, magari, un mobile. Però, mi consolai rinnovellando dopo un attimo d'impasse il mio sfregamento con aumentata foga, era solo un metro.

—Vengooo!— gridò di nuovo, poi più piano: "Uffa." Ecco, mi aveva parlato, mi aveva fatto confidenza. Mi chiesi se quella fosse la sua camera. Avrei preso settantasette volte sette diarree pur di passare notti a vegliarla da quella latrina, che lei deodorava con la sua leggiadrìa. Imaginando tutto questo pure io venni, ma senza annunciarlo. Dopo, invece di disinteressarmi come è d'uso tra' mascoli dopo la poteosi sexuale, rimasi (qual migliore Prova d'Amore?): un terzo "Vengo!" e un rumore familiare, una cascatella. Mi smarrì piuttosto che illuminarmi, e dovetti provocare una sciacquata analoga per capire di che natura fosse la stanza della casa di Elisa che rimaneva così vicina a me.

Quella sera sdegnai l'offerta di dieci minuti per il giorno dopo: non avevo bisogno di sacrificarmi per vederla da lontano, ora. Dopo una settimana di dinieghi ero novamente peggiovisto da tutti. Avevano ripreso a tirarmene e a far scherzi cretini tipo popò sotto il cuscino; ma sopr' a tutto a chiamarmi Aeroplano, il nome di quando ero arrivato. Mi faceva molto più male di "Dumbo", perché rimembrava con molta precisione gli unici oggetti che odiassi realmente in tutta l'infelice esistenza mia: l'etterno segno della maledizione divina, la mia deformità. A tutti potevo indulgere; il mio mondicciuolo era in sé coerente. Mura, mafia, suore, puzza, ferocia, iniquità ingranavano sine ullo problema. Ma cottolengodegno qual ero già potevo tenermi fortunato, se mia Madre Misericordiosa m'aveva relitto, per nove dei miei dodici lunghi anni, tra esseri umani invece che tra gl'altri monstri. Me le sarei strappate, n'avessi avuto fegato.

Ma tutte le mezzore centellinate che, fingendo mal d'interiora, potei passare al gabinetto, non mi fruttarono un solo incontro se pur così labile. Una volta sentii, con le mie antenne paraboliche, una presenza al di là del muro; ma grugniti da stitico cupo mi fecero riconoscere un padre. Né mi trastullavo più; per fortuna: una volta una suora, un poco perplicata, entrò dibotto in bagno. Io dichiarai che la cacca non veniva, e lei si limitò ad invitarmi alla fretta. D'allora in poi attesi seduto a vaso in perfetta posa.

Niente. Stavo già rassegnandomi a farmi altri venti minuti alla finestra, ancor più sgustosi pella desuetudine e l'amarezza della frustrazione, ma volli prima tentare verso le undici di sera. Nisi altro l'avrei sentita lavarsi le sanne; forse.

Udii un riso infantile, non il suo, ancora avanti che si schiudesse una porta. Poi la sua voce.

—Dài, si fa la doccia?— e ancora quella risatina inconnue. Un po' d'agitazione e rumori confusi; parlò la sua amica.

—Oh, ma che fai, ti spogli?—

—Perché, te la doccia la fai vestita?— e giù risate stupide, cacofoniche, imbarazzate ma così affascinanti, femminili deinde nuove e maravigliose. Sentii aprirsi l'acqua. Era nuda, Lei, in una luce che sentivo trasudare a me in un bujo che la penzula lampadina da 25W non scalfiva. E non era nuda da sola: c'era qualcuno che la guardava, la luce la rivelava al mondo.

Ancora ilarità, voci.

—Oh, che fai, dove mi tocchi?—

—Ti aiuto a lavarti, Giudi.—

—Hihihihi!!! Mi fai il solletico!—

—Sieh, il solletico. Hihihihi!!!—

—Che c'è?—

—Mi fai il solletico te, ora!—

—Hai visto che fa il solletico?—

—Fammi un altro po' di solletico...—

—Sì. Anche te, però.—

Poi silenzio, sospiri; infine s'interruppe l'iscroscio.

—Si va a fare uno scherzo a mio fratello?— propose Elisa, e dopo uno zampettìo la porta si riaprì e richiuse. Sarebbe stato un sogno essere suo fratello: anche per presadigiro, vedermele comparir davanti. Mi aggranfiai il cinci digià exuberantissimo e le attesi. Ecce, mo s'apre la porta, son desse...

—Oh, Dumbo, vieni a letto che arriva la suora!— gridommi un bravo ragazzo, che fe' persino mostra di non avvedersi di quel che stavo impapocchiando. Mi rifugiai dimolto gramo nel solingo tàlamo.

Il fatto di sentir pronunziare il mio Nome Ufficiale mi die'; segnale dell'imminere di un avvenimento, non dico xtra-ord., ma almeno fora dal quotidiano. Nominommi la suora pronunciando la sveglia la mattina dipoi, adjungendo che mi sarei dovuto presentare entro venti minuti, benlavato ed ancormegliovestito, nel Büro della Direttrice.

Là rinvenni una cicciona da' vestimenti ben troppo variopinti per l'ambiente, che fui istruito a riverire in contraccambio della sua confidenzialità. Passò una marea di tempo a pormi questioni delle più disparate, cui davo risposte delle più disperate; poi alzò se stessa e mi circondò le spalle con un braccio. Avvertii e la prorompenza della sua puppa destra e l'acuta essalazione della sua ascella, ma mantenni presenza d'ispirito a bastanza per evitar di venir meno; mi si raccomandò addirittura di ascoltarla per nome, senza l'epiteto "signorina". Ma figuratevi se avrei mai amistato una tanto prorompente sbaciucchiona.

—Sei proprio simpatico.— mi guanciò MariaRosa. —Dovremmo conoscerci meglio, noi due.— e mi schizzò un occhiolino grasso e bollicioso come e più di lei stessa. Oh sì, chiesi, prima d'escire dall'ufficio della Superiora, di pingere il guardo fuor di finestra, ma questa compativa un cortiletto bigio; l'obesa MariaRosa mi condusse, sempre affogandomi nel suo abbraccio, per corridoi di solito preclusi. Mi accecò un fulmine statico già da svariati anni: l'odore di donna "donna", così diverso da quello delle suore, combinato con quello dell'estraneo corridojo che stavamo calpestando; era cieco, ed invano cercavo nei miei banchi di memoria un'imagine che me lo ricordasse. Non mi voltai a riconoscerlo invertendone la perspectiva, calamitato dal portale in metallo e legno marrone in fondo. MariaRosa estrasse un oggetto di metallo, che allora m'era ignoto e che sugli abbecedarî acrostici non era raffigurato e sostituito con "chiesa", visto che l'unica parola di tale etimo che conoscevamo era "chiavare", verbo non amato in ambienti ecclesiali (non quanto "chiesa", almeno). Lo infilò in una delle placche siderurgiche, al che la gibertina, pesante, si schiuse.

MVNDVM EXTERIVS VIDI

Non riconobbi all'istante la piazza, e mossi tremuli passetti sulla ghiaja. Appena emersi di sotto i platani subii l'agorafobica vertigo: MariaRosa mi sustenne, mentre mi blaterava sanza posa nell'orecchio una sequela in cui m'accorgevo solo del simpatetico compassionevole; io ero troppo preso della passeggiata, così assorto dal loco che Elisa la vidi soltanto quando le fui vicino vicino. Imbambolai nell'osservare le sue nuove fattezze, i particolari che non avevo potuto mai registrare. MariaRosa se ne dovette accorgere, ché smise di parlarmi e seguì il mio figgersi fisso. Incoordinato il mio desire i suoi occhi s'intenerirono fin quasi a liquefarsi; le sue labbra inghiandarono in un cuoricello. Non ostante però fosse palese che 'l mio animo spenzolava da lei, la mia aguzzina liberatrice mi staccò da sé e con micidiale disinvoltura si avvicinò a Elisa. Privo di sostegno, barcollai; stavo per collassare. MariaRosa disse qualcosa a Elisa con un ammicco serio, e Lei bionda annuì; io osservavo, tremebondo, gelatinoso. Elisa, tranquilla, mi venne incontro, mentre io arrrossivo fin nei più intimi recessi e subivo un inturgidire ch'inflase i miei pantaloni da ragazzino vestito ammodino rendendosi ancor vieppiù perciò terribilissimamente imbarazzante. Elisa venne ancor più vicina, e mi guardò negli occhi. Anzi, non proprio negli occhi: un po' allato. Si mise a ridere e, richiamata da una donna, se n'andò; appena in tempo per non vedere uno stupido bamboccio gettarsi al suolo e rantolare afasiche lacrime sgraffiandosi con rabbia le orecchie; a sventola.