Le donne sono strane

Oppure immaginate di volare su d'un aeroplanucchio ad elica e di planare su un litorale mediterraneo con retroterra pinoso, sterposo, in un primo pomeriggio d'Agosto, tanto che il fragor delle cicale si insinui tra le pale e vi giunga snaturato dal Doppler ma siempre distinguibilissimo, che le crepe del suolo vi paiano non ombra aprospettica ma distinti capelli spezzettati, e che l'aroma, più che dall'innumerevolezza delle piante, esali dalla calura che fa leggerissimamente tremolare la visuale. E mettiamo che da uno spiazzo dormiente nell'abbraccio silvano sorga una villetta, né grossa né piccina, né vecchia né nuova, con un praticello smunto a lambirne il piede, e che voi con abile mossa v'intrufoliate non visti ma sempre alianti per un sentiero che dalla casa porti a mare, e giunti a un tornante intravediate sul ciglio stradale un paio di berretti supponibilmente con visiera. E sotto questi, capelli, magliette, due culetti carezzati dai costumini e quattro suole.

La ragione per cui avevate visto solo una particella dei loro aurei corpi era che entrambi osservavano un medesimo, fascinosissimo oggetto. Doveva trattarsi di una cosuccia assai bizzarra, a dire dalle reazioni che suscitava nei due soggetti parapensivi che albergavano detto lido.

—Aaaah. Uuuuh. Dai, bello mihìhìhìhì... bello mio, fatti vedere quanto sei bello...—

—Eh... oh... continua tu.—

—Aah. Mpfrrhihihihi! Sììiie he. Prendimi subito, ah. Siii.—

—HA! HA! Ha. Hem. Maledetta puttHA HA HAA!!—

—Sciaf. Beng. Scrasss.—

—Cosa hai fatto a Veronica eh?—

—Tump. Ehi no aspetta cosa fai.—

—Ti ammazzoooo o o o o o, o. O.—

—Aaaaaah.—

—...—

—Gira.—

—Uah HAH HAAA!!! Accidenti oh!—

—Dài, forza, vai avanti!—

—No, fermo cosa fai.—

—È questa la colpevole, quindi punirò lei.—

—No Derec, aiuto, noo.—

—Sì, è per la tua voglia di cahaHAHAhihi... che l'hai ammazzata. Maledetta. Zaf.—

—Aaaaah. Nooooo.—

Silenzio improvviso d'entrambi.

—Ganzo.— disse Gianluca —Ci si tiene?—

—Non si può mica portare al molo: se ce lo vede Tommaso...—

—Allora lasciamolo qui che poi si ripiglia al ritorno.—

—Sì, dài, nascondilo, così poi è sicuro che si ritrova.—

Poser l'oggetto sotto delle sterpaglie, poi Massimo si rialzò. Gianluca stava ancora accovacciato.

—Oh, dài, andiamo. Tra un po' viene qui Tommaso e se ci vede s'insospettisce.—

—Aspetta un attimo. Mi s'è atrofizzata una gamba.—

—Uffa, alzati, su!—

—Ho detto aspetta un attimo!—

Gianluca armeggiava disperato nel costume onde il suo pìrolo stesse meno scomodo e imbarazzante. Alla fine si erse abbassandosi quanto poteva la maglietta sul davanti. Tutto rosso era, pur sotto l'incipiente abbronzatura.

—Ti si è rizzato eh?— gli fece Massimo. Non v'era adito a dinieghi.

—Sì, perché, a te no?—

—Sie, io non sono mica affamato come te.—

—Oh, sei te che sei impotente.—

—S'ha a vedere?— e già parava mano a patta.

—Ma va' via, finocchio!—

Impuni sghignazzarono. Massimo, senza cuore come d'uopo agl'undicenni, sbeffeggiava Gianluca abbassandosi il davanti della maglia e zufolando come indifferente. Zufolato, se pur malamente ossia senz'arte, sentivasi il Gianluca, ma anche a lui veniva da ridere quindi dopo poco scordarono il battibecco e presero a citare dottamente ciò di cui eran venuti in possesso, divertiti dalle passioni insane; e stuzzicandosi incessanti a vicenda giunsero a riva, un pontile bilico su scogli atri. Prese pinne maschera e fiocina per cacciare ottopussi, essendo loro "ragazzi in gamba", e previdenti quanto basta,

—Oh, sono passate due ore da quando abbiamo mangiato?— chiese Gianluca. Al che Massimo guardò la patacca a LCD dalle 50.000 funzioni ultraboliche.

—Sono le quindici e ventisette.—

—Manca ancora mezz'ora.—

—Trentatré minuti. Abbiamo finito alle due.—

Senza neppure ventilare una minima trasgressione dai dettami del Manuale delle Giovani Marmotte i pargoli scesero agli scogli più bassi, si bagnarono i capelli e si rimisero il berretto per evitare colpi di sole. Là seduti, aggrugnato il viso per la balugine, i due attesero i 33 minuti disquisendo di teoria e pratica polipopiscatoria e contandosi balle, finché, allo scoccare, si tolsero quel che avevano e spensierati in mutande si tuffarono per giocare ad uccidere.

Risalirono poi sugli scogli quando riemersi a respirare per la settantasettesima volta oltre all'irritante frinire sentirono umane voci ed anzi parzialmente consanguinee. Sul pontile si svaccava bellamente un grumo: Tommaso, Vittoria e la di lei sorellina. I due discorrevano proni sugli asciugamani; l'altra in prendisole osservava i granchi passarle tra i piedi e non aveva imbarazzo che essi le vedessero le cosce. I velleitari killers sciaguattavano e gridettavano come marines: tutti se n'accorsero.

—Oh, eccovi. Andata bene la pesca?— s'informò Tommaso.

—Me n'è scappato uno grosso così.— rispose Massimo quasi a braccia aperte.

—E a me m'è scappata una balena.—

—Ha, ha.— s'indispettirono i più piccoli.

—C'era la Domi che vi stava aspettando.—

—Vieni a fare il bagno!— la chiamò Gianluca, simpaticone ("ma serio") come ai boy scout s'addice. Domitilla sparse vestituccio e cappelluccio e scese pure lei scomparendo ai due tutori.

—Allora, si sta bene adesso laggiù?— domandò Tommaso.

—Bene, bene. Certo, però, ora mi tocca sopportare la Domi in continuazione. Non posso mica lasciarla da sola. Per fortuna ha capito che ho da studiare e allora la mattina ce l'ho un po' libera...—

—Poverina, si deve annoiare.—

—Tanto si annoierebbe lo stesso, sai,— scattò Vittoria — anzi, forse di più. Almeno con me fa quello che gli pare.—

Tommaso tacque furbo. Vittoria espresse scocciatura.

—Che le pare.— corresse. Tommaso sorrise.

—Ma dovresti farle un po' di compagnia, farla partecipare, non puoi mica sempre solo badarla!—

—Ma senti questo, quasi quasi te la rifilo a te! Manco gli fai da mangiare, a tuo fratello!—

—Che c'entra, lui s'è portato l'amico.—

Splisc splosc splusc.

—Vittoooooria...— emerse un'umida salsa voce di là basso.

—Che c'è Domi, che vuoi?—

—Si va a casaaaa?...—

—Di già? Ma se siamo appena arrivate!—

—E dài...—

—Sì, va bene, intanto asciugati.— Vittoria oculeggiò sconfitta Tommaso, che si rosolava non curandosi dei problemi femminili. —Mi sa che me ne devo andare... senti, non ti andrebbe di fare qualcosa stasera?—

—Mah, dipende cosa.—

—Su al paese oggi c'è il cinema: ti vengo a prendere alle otto, OK?—

—Sei molto gentile ma... che film dànno?—

—Ma che ne so, mi basta andarmene una volta tanto da questo posto maledetto, non ne posso più.—

—Ma cooome...— sfotté Tommaso —ma se è così bello...—

—Già, tanto te parti tra una settimana.—

Tommaso fece spallucce.

—Uffa. Insomma, vieni, no? Distraiti una volta tanto! Al limite, acompagnami giusto per farmi un piacere: non sarò mica tanto fastidiosa, per una sera!—

—Abbastanza.—

—Co—

—Ma no, scherzo.— la tranquillizzò il lusingatissimo Tommaso —Va bene, allora stasera alle otto... ma andiamo in Vespa?— giunse atterrito.

—Ma certo.—

Lui, per prendere i noti due volatili col notissimo legume (da non confondersi col legòmenon), ossia evitare sia la gita che l'odio della pulcella, oppose allora

—Ma la tua sorellina, non la lascerai mica tutta sola?— Però la coetanea vinse, pur essendo di per sé tonta, il suo scrupolo. Passasse la serata coi due, e venisse ripresa al ritorno, propose lei: l'avrebbe comunicato (non "chiesto") alla sorellina. Si appuntarono dunque.

Ecco; ed ora immaginatevi in groppa a un motoguzzone che seguite le due signorine in Vespa: quella davanti, turbata da una lieve affezione da amoretto periodico, ovvero resa contratta da disincantata speranza. L'altra che dissimulava ben bene, dietro una noia in parte anche naturale, un profondo disagio e imbarazzo sproporzionatissimi né causati dal trascorrere due o tre ore sola con due maschi; perdipiù coetanei, quindi suscettibili di commenti di orrida malizia insieme a lei.

Di ritorno dal mare Gianluca e Massimo, accompagnati dal fratello, si guarditavano per escogitare un piano onde riappropriarsi del bene di poc'innanzi; e se certo la loro discrezione bastava a che non si capissero l'un l'altro, Tommaso se n'accorse e con una scusa se ne tornò allo scoglio. Ignari dell'intenzionalità di ciò i due si fregavano le mani e con accorgimenti para-Hammettiani ripresero dalla balia Terra il quid, nascondendolo così circospettamente sotto la maglietta che persino Candy Candy avrebbe subodorato.

Sotto la comune doccia (ultimo retaggio di educazione progressista) Massimo, eccitato dall'idea della scomparsa del deterrente psico-marachellaneo denominato "Tommaso", così iniziò a progettare:

—Oh, oh, oh, oh. Che si fa stasera?— ammiccò sgomitando l'amico anch'egli nudo com'un verme, e sorridendo teso ed ebete come chi sente montare la fregola ma trattiene folli gridi.

—Si guarda...—

—Vai, vai!—

Ridiscesi, Tommaso li prese e con una Catilinaria sui doveri dei ragazzi responsabili né convincente né convinta si congedò.

—...e mi raccomando soprattutto, non entrate assolutamente nella mia stanza. D'accordo?—

Un invito a nozze. Ma ceeerto che no, ci mancherebbe altro. Bravi e buoni come loro non lo sarebbero stati né i chèrubini né tantomeno i semplici santi. Giunse allora il bolide ferrogastrico e, prelevato il Cerbero, rilasciò Tumistufi.

Mangiato in silenzio e guardatisi imbarazzati negli occhi i tre giovani avrebbero desiderato una TV. Già Massimo e Gianluca, ospiti e autonomamente affiatati, non sapevano che dirsi, né come scordarsi la loro fissazione di tutto il dì; Domitilla, poi, era spenta e pietrificata. La lampadina nuda "rustica", impietosa, non concedeva penombre. Toccò al padrone di casa farsi coraggio, prendere il vinsanto genuino del simpatico contadino Gino e proporne la bevuta; intese come sì lo sguardo smarrito di lei, e le versò un bicchiere pieno e mezzo in grembo. Mentre Massimo deglutiva avido per parere virile e rotto a tutto, Gianluca sorseggiò "tranquillo", Domitilla trèmula; così i due bevvero tutto, e il primo ne tossì via mezzo. Ma l'allegria non uscì genietta dalla boccia; Gianluca fingeva di non resistere alla risata, e di essere quindi "ubriaco", e palesemente faceva riferimenti a qualcosa di segreto. Domitilla vieppiù si sentiva emarginata, e, soggiogata dall'autentico effetto dell'etile, si svaccò su di una poltrona.

—Io ho sonno— disse flebilmente.

A Massimo non pareva vero che si levasse di culo quella rompi. Le indicò il letto matrimoniale deserto dai genitori.

—Oh; e ora che si fa?— dubse Massimo, delusissimo dell'andamento della cosa e ancora incaponito disperatamente alla ricerca di una stupidaggine da commettere; ma il capo pesava.

—Dài, piglialo.— E si rimisero a osservare l'oggetto; guardatolo, spulciatolo, riconsideratolo e commentatolo che l'ebbero, ancora si sentirono vacui di monellitudine. E il capo pesava di più, tanto che pian piano, senza previo accordo, scivolarono tre passi avanti uno indietro verso la camera dei genitori, dove la bimba usufruiva di un sonno turbato, ma non dal vinsanto.

Ed oh! mirifica visione! La fanciulla ronfante non già di manufatti veli ricoperta giaceva, ma, per l'ebbrezza e la temperatura, aveva dimenticato che in caso di assenza di apposite toghe si usa tenere indosso tal diuturno indumento per proteggersi da indiscreti sguardi: era in tenuta evitica e pure in posa scomposta; tant'è vero che, aizzati dall'alcole e galvanizzati dalla previa visione del tesoro, i due mascoli non s'imporporarono alla vista dell'anfratto che tanto sarebbe parso a loro caro di lì a un paio d'anni, ma anzi presero a guardarlo con sommo interesse, e a diquisirne metascientificamante indicandoselo e ridendone (come ci fosse da riderne, deh! Si è morti per meno e si vive per esso), e confrontandone il sembiante con quello loro sottomano, commentando la validità dell'icona. Dato che a nessun dei due veniva in mente di farne uso come i loro coëtanei più smaliziati, o come i maggiori, non ci si stupisca che Massimo, il più discolo ed intraprendente nella mitologia della coppia amicale (mentre Gianluca era "il saggio"), estratto dalla tasca il suo tesoro #2, "Coltellino finto-svizzero sempre con sé tratto sperando pulirci un polpo", si sia messo a recitare monologicamente a memoria parte del dialogo di quando li incontraste; e che piano piano, insolitamente ferma la mano, abbia infilato la lama più lunga proprio dentro quel recesso misterioso, tenendone l'imbocco fermamente dischiuso con le dita della sinistra e badando bene a non ferire, e si voltasse di tanto in tanto a cercare e trovare la muta approvazione del compagno, che osservava in preda a mistico timore. Giunto che fu ad inserire il ferro tutto, Domitilla si smosse nel suo sonno allucinato; ciò atterrì i ragazzi, e Massimo, estratta cauto la spada dal fodero, spronò il socio a raccogliere le carabattole e filare, dacché pur non avendo ricevuto tabù sessuali in abbondanza avvertiva che l'impresa non sarebbe stata molto approvata dall'interessata. Le donne sono strane.

Passando dal salotto sentirono voci e rumori dal vialetto d'ingresso: Tommaso e Vittoria, tornati dal paese; i piccoli se ne spaventarono e corsero a perdifiato su per le scale fino alla camera dove nascosero i loro preziosi, si cambiarono da notte e tuffatisi sui letti affettarono il più profondo sonno di questa terra.

—Ma dài, Tom, devo tornare a casa...— lagnava biascicando la voce di Vittoria che giungeva loro chiarissima nella tremante veglia.

—Aspetta, ti faccio provare una cosa.—

—Ma se sono già completamente ubriaca...—

—Aaah, poche storie; su!— E come avrebbe potuto, lei povera innamorazzata del maschio, rifiutare? Per un po' Massimo e Gianluca non sentirono nulla.

...

—Domi! Ma guarda te!— E agghiacciarono i malefici sentendo prossimo il Giudizio. Ma i grandi ridevano; poi una terza voce.

—Bhauwahawo webhwebewo!!!!—

—Ma no, Domilillerina mia, non piangere, dai!— e giù risate. La cosa si faceva misteriosa. Poi, sussurri; mugugni; scricchiolii?

S'interruppero. Ancora mormorio e piantuccio, affogati dal rumor di grilli. Infine, terribile: passi su per le scale. La porta si spalancò e, sorpresa!, apparve Tommaso.

—Venite un po' giù, voi due, che tanto lo so che non dormite.— fece. Loro non risposero.

—Massimo, siete entrati nella mia stanza?—

—No!!— saltò su costui —Non è vero! Giuro!!—

—Bene, ora che siete svegli, scendete a sparecchiare il casino che avete lasciato.— li fregò Tommaso, che loro dovettero seguire tristi e in calzoncini con cuore reo.

Dopo aver fatto quello che dovevano passarono inevitabilmente vicino alla stanza dei genitori, e non poterono non guardarci dentro. Sul letto matrimoniale videro Domitilla tale e quale l'avevano lasciata, senonché sveglia, e Vittoria accanto: e quando Tommaso li invitò ad entrare, immaginatevi di quanto aumentò il loro colossale smarrimento quando videro sul lenzuolo, proprio nel punto di esso dove avevano compiuto l'impresa, una chiazza di sangue, e traccia di esso sulle cosce della bimba; notati i loro sguardi strabuzzati, Vittoria rise e disse loro che non era successo nulla e che quello si chiamava "monarca" (e che c'entrano ora i re, si chiese il colto Gianluca) e che succedeva a tutte le ragazze una volta al mese (chi l'avrebbe mai detto, pensò Massimo).

—Anche a te?— domandò Gianluca.

Tommaso si mise a ridere, e rispose per la ragazza:

—Ma certo!—

Più tardi, tornati in camera dopo la ramanzina di Tommaso (che continuava ad essere convinto che loro fossero entrati in camera sua), restarono un momento ad osservarsi negli occhi, con aria perplessa. Dopo la risata liberatoria di rigore, si misero a discutere di anatomia, ma soprattutto di psicologia, femminile. E quando si addormentarono erano giunti ad una conclusione: le donne sono strane.