Inizia tutto, sostanzialmente, con un gruppo di persone: persone-persone, senza ulteriori attributi, il MCD dell'umanità italiana. Anzi, scremata apposta ogni possibile particolarità.
Un donnone dominatrix li chiama col fare sbrigativo, ineluttabile e randomico con il quale lo spettatore si sente, poi, chiamato dagli eventi. Ed essi rispondono saltando su, con la loro mediezza, i piccicotti col nome di battesimo appiccicati sull'abitozzo, come le comitive intrapadane eterodirette, con i loro cappellini e i borselli marchiati dall'agenzia di viaggi in torpedone con dimostrazione di pentole. Perché la mancanza di volontà è per noi così antiansiogena.
Il Capo, poi, mantiene spudoratamente il controllo del microfono, ché non abbiano a sforare. Possono sì, anzi debbono, per mostrarci la loro consistenza normale, dire di sé: ma senza fare figuracce, contro le quali sono assicurati dal donnone brandente il filo che li lega alla vera esistenza. Frasi dunque spezzate, ché non ci irritino con una eventuale personalità.
A questi uomini e donne, debitamente eccitati e saltellanti, vengono allora proposti oggetti di moderato sogno, quelle cose che ogni giorno possono loro capitare sotto gli occhi, e che chissà, a fine mese, permettendo i conti... sogni raggiungibili e facenti parte della loro conoscenza, cose per cui si possono mettere i soldi da parte. E quindi, del cui prezzo, magari, si ha una qualche cognizione. Roba che fa parte del loro, e per conseguenza del nostro, mondo. Cose utili o lusso di pacca - di "prestigio" per noi.
I nostri campioni si prestano gai ad essere gentilmente schiaffeggiati dal donnone, che piacere dimostrare quanto attentamente evitiamo di apparire in qualche modo diversi... ed anzi viene evitata proprio la particolarità, perché non causi turbamenti. In quel mondo lì non c'è nessuno che io possa rimarcare, e quindi odiare in quanto mi ricorda la mia piccineria. Le uniche possibili sono il donnone, qualche ragazza di plastica, e naturalmente la ROBA.
Sin dall'inizio viene richiesta ai nostri strettamente intercambiabili eroi dal solo nome proprio e provenienza, ché ci si inorgoglisca dell'appartenenza al paesotto quella conoscenza e furbizia che si orienta bene tra le navate della Standa: vincente tra i pelati, e un poco in soggezione nei reparti elettrodomestici dell'iper, ma con la sicura soggezione di chi si vede separato dal possesso non da ineluttabili barriere di sangue, ma semplicemente dal tempo e dal risparmio.
Non vedremo mai tra i trofei della cuccagna gli oggetti di cui sono invece pieni i sogni dei figli in città. Irraggiungibili non tanto per il costo, ma per la loro differenza ricordiamoci di quanto ciò ci terrorizzi. Vogliamo solo quello di cui sentiamo che desiderarlo non ci distingue, e chi vuole altro ci rifiutiamo di capirlo, diffidando di lui, come se suggerisse, desiderando qualcosa di diverso, che il nostro desiderio ha un che di inferiore, di non necessario.
Tutti dunque trattati da bimbi grulli dal donnone, perché non alziamo la testa. Ed anzi più il nostro sorriso è sudato e prognato, più l'eloquio balbettoso, più mostriamo come imbarazzante diversità che facciamo collezione di bamboline, più ci ostentiamo stolidi e solo rassicurati dalla maggior vicinanza a quello che tutti sono, meglio è. E così è giusto e fatale e lo difenderò con tutto l'odio e il terrore di cui sono capace che la sola conoscenza accettabile sia la mia, e cioè quella dei prezzi della roba.
E il bello poi, o se vogliamo, il terrificante, è che noi non siamo così. Siamo le stesse persone che, colpite dalla disgrazia o dall'onta, reagiscono nobilmente col suicidio, o con la guerra, che è lo stesso. Le stesse che di fronte al bimbo albanese sul gommone ci viene la lacrimuccia (lo zingaro no, perché non ha quel bel faccino spaurito, ma gli occhietti da demonio, e poi ruba). Le stesse che se la figlia della vicina si fidanza con uno di fuori andiamo lo stesso a casa sua e le sorridiamo, per poi sputare il veleno quando non c'è, così che poi in sua presenza ci sono quei silenzi, e lei si sente esclusa.
O meglio, non è così che siamo noi noi, ma è il nostro così che guarda, che vive "OK". Perché magari nella vita siamo persone anche buone, ecco. Permettiamo alla Grande Madre secca di sbatterci qua e là per lo studio, di trattarci per i nulla che noi godiamo ad essere, orgogliosi della nostra normalità come valore, perché non osiamo distinguerci.
Accendendo il televisore, ci abbandoniamo a quel peggio di noi che nessuno osa raccontarci, per tema di offenderci, noi consumatori e votanti. Oh, e se sapessimo lo schifo che facciamo a chi ci nutre, il cinismo delle truccatrici, piangeremmo forse, o spengeremmo, o molto più probabilmente, odieremmo. Perché noi li amiamo. E loro devono amarci e rispettarci, a modo nostro, si capisce. Altrimenti.
E osservandoci allo specchio negli sguardi grulli, contemporaneamente ci invidiamo e disprezziamo, ma soprattutto, capiamo quello che sta succedendo.
Perché basta con queste cose che non si capisce niente, come queste lingue degli stranieri. Siamo stati zitti per anni, vergognandoci della nostra ignoranza. Oggi, signori, è giunta l'ora di farne la nostra bandiera: se anche un negro è un essere umano, allora anche sapere quanto costano i piselli, è cultura.